Alexandra Horowitz da anni è impegnata sulla comprensione dei cani. I suoi studi, tra le tante cose, ci hanno detto ad esempio che i cani si rendono conto del tempo che passa attraverso l’olfatto e che si riconoscono ma non dallo specchio. Il lavoro della ricercatrice americana mira anche a far prendere consapevolezza su come si fanno vivere i cani e su cosa si può e deve fare per migliorare la loro vita.
In un recente articolo pubblicato sulla rivista Frontiers in Veterinary Science, la ricercatrice americana si sofferma sul problema di come sono considerati, vissuti e trattati i cani sia in ambito di ricerca sia di attività assistite e di come il loro vero benessere deve essere prioritario per chi ha a che fare con loro.
Il cuore del problema è che gli animali sono generalmente considerati oggetti, non soggetti: anche chi lavora nella ricerca sulla cognizione animale e chi fa ricerca sul comportamento animale ha interesse per gli animali e da loro valore solo per quanto servono e fino a che sono utili agli umani e maltrattamenti e violenza nei loro confronti, anche nella forma più estrema, sono comuni.
Anche nel campo della HAI (Human-Animal Interaction, più o meno, interazione animale-umano), che si differenzia dagli altri perchè chi ci lavora ama gli animali, comunque gli animali hanno un ruolo che la Horowitz definisce di ‘partner silenzioso’, sono raramente considerati per chi sono e sono in termini di utilità in relazione agli effetti che la loro presenza ha sulle persone.
Un segno inequivocabile che i cani non sono considerati soggetti è che è molto raro che nelle ricerche siano chiamati per nome. Il motivo è semplice, spiega: indicare per nome i cani li personalizza, li rende qualcuno, e costringerebbe gli umani che hanno a che fare con loro a considerarli nella loro unicità e questo, ovviamente, complicherebbe, per non dire renderebbe impossibile, continuare a considerarli e a trattarli come oggetti e quindi continuare ad ignorare come si sentono, i loro sentimenti, e ciò di cui hanno bisogno per stare bene.
Un altro problema che la Horowitz evidenzia è che la gran parte degli studi sulle interazioni umano-canine mira a capire se il contatto con i cani fa bene agli umani (benessere mentale – ad esempio la riduzione dello stress; benessere fisico – ad esempio l’abbassamento della pressione sanguigna; e, in generale, tutti quei benefici che chiama ‘socioemozionali’) mentre pochissimi sono quelli che studiano gli effetti, a breve, medio o lungo termine, che le interazioni con gli umani hanno sui cani.
Quei pochi studi che ci sono hanno dato risultati discordanti e, dice la Horowitz, è ipotizzabile che dipenda dalle misurazioni usate visto che alcuni usano misurazioni fisiologiche – ad esempio il battito cardiaco e i livelli di cortisolo – mentre altri usano misurazioni comportamentali dello stress, come ad esempio ansimare, leccare, e sbadigliare e dalla unicità di ciascun cane per cui ognuno vive le interazioni in modo diverso.
Invita quindi a considerare ad esempio come gli odori impattano sul sentire dei cani visto che, grazie al loro poderoso olfatto, li percepiscono e notano più e in modo molto diverso da come percepiscono e notano gli oggetti tramite la vista e da come noi umani percepiamo gli uni e gli altri. Lo stesso vale per i suoni, che i cani percepiscono in modo molto diverso da come li sentono gli umani. In poche parole, quando si espongono i cani a situazioni e persone, anche in un contesto di terapie assistite, si deve considerare che la loro percezione del mondo che li circonda è diversa dalla nostra per cui possono risentire e soffrire di ambienti, circostanze, comportamenti, reazioni etc. a cui gli umani non danno peso e che non pensano possano essere pesanti per loro (magari perchè sono abituati, pensiamo ad esempio all’ambito ospedaliero).
Un altro tema delicato sono le carezze a cui i cani che lavorano in ambito delle terapie assistite sono sottoposti e se tanti di loro amano essere toccati ed accarezzati e chi lavora è abituato ad esserlo, spiega la Horowitz, fare un lavoro in cui sono costantemente toccati per loro è comunque molto faticoso.
Detto questo, in termini generali, dice la Horowitz, benessere e una buona vita per i cani non vuol dire non soffrire, non essere menomati (i.e., castrati) e non essere costretti a vite per loro inadeguate, in altre parole non deve essere un non avere ma un avere, positivo: devono quindi avere adeguati stimoli fisici e mentali, interazioni fisiche ed emotive con i proprietari, conoscere e potersi muovere nel mondo naturale, annusare in giro, rotolarsi, avere giuste occasioni per giocare, divertirsi, impegnarsi, legarsi affettivamente, esplorare, scegliere, riposare ed avere almeno un po’ di controllo sulle loro vite e l’ambiente in cui si muovono.
Non solo, oltre ad impegnarsi per dare ai cani ciò di cui ciascuno di loro ha bisogno, bisogna impegnarsi perchè ciascun abbia ciò che vuole. In altre parole, il benessere dei cani richiede che si comprenda e si consideri la loro prospettiva relativamente alle attività in cui li si coinvolge o si intende coinvolgerli e ci si impegni per dare loro condizioni positive di benessere e non mancanza di malessere.